Dopo la morte di Mihajlovic e Vialli, diversi calciatori degli anni Ottanta e Novanta hanno manifestato i propri timori per le sostanze assunte, ma non esistono studi che dimostrino un legame con il pericolo di tumore. Mentre ci sono dati sulla sclerosi laterale amiotrofica
«Devo avere paura?». Soprattutto dopo la morte di Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli, diversi calciatori degli anni Ottanta e Novanta hanno manifestato i propri timori per un possibile legame fra le sostanze assunte per migliorare le prestazioni in campo e l’insorgenza di un tumore. Se l’emotività di chi è spaventato va certamente rispettata, parlando di un nesso fra ex calciatori e maggiori probabilità di cancro ci si avvicina davvero molto a dare un falso allarme. Insomma, per usare metafore che restino in ambito calcistico: è un campo molto scivoloso e c’è il rischio concreto di fare autogol, sollevando ipotesi senza fondamento. Perché, tanto per cominciare, per capire se una sostanza provoca il cancro bisogna studiare appunto quella precisa sostanza, ma i giocatori stessi (allora peraltro quasi tutti molto giovani) non sanno dire quale fosse il contenuto di fiale, pastiglie, beveroni che sono stati loro somministrati, come molti dei diretti interessati hanno più volte dichiarato.
Allora iniziamo da qui: cosa si sa dei «farmaci» assunti in quegli anni da molti calciatori?
«Poco o nulla. Si è parlato di Micoren o simpamina, una sorta di anti-asmatico che alcuni anni fa veniva prescritto a chi era affetto da asma e pressione bassa — risponde Francesco Massari, ricercatore in Oncologia all’Università degli Sudi di Bologna —. Fondamentalmente il medicinale migliorava la respirazione presentando anche effetti collaterali prevalentemente di tipo cardiocircolatorio, ma negli anni ‘70 era considerato innocuo e lo si dava ai calciatori perché migliorava le performance respiratorie. Nel 1985 è stato eliminato dalla legge antidoping e ancora oggi si conosce poco sui suoi effetti a lungo termine, non c’è evidenza che sia cancerogeno. Negli anni ‘70, poi, per alcuni traumi sportivi veniva prescritta la roentgenterapia (trattamento radioterapico che utilizza un fascio di raggi X sull’area da curare, ma all’epoca a dosi non idonee), successivamente “dismessa” perché si è appurato che faceva aumentare il rischio di neoplasie».
Ci sono numeri che indicano un aumento di tumori nei calciatori rispetto al resto della popolazione?
«A oggi non disponiamo di dati ufficiali che possano indicare un aumento dell’incidenza dei tumori nei calciatori rispetto alla popolazione generale — spiega Massari, oncologo responsabile delle Neoplasie del tratto genito-urinario presso l’Irccs Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna —. In teoria, i calciatori (come tutti gli atleti) sono sottoposti a regole e “buone pratiche” alimentari, del sonno, a viste mediche e controlli maggiori rispetto alla popolazione generale. Per esempio hanno una dieta tendenzialmente più ricca di anti-ossidanti, che sappiamo essere un fattore protettivo per lo sviluppo di tumori, che a questo punto addirittura potrebbero avere una più bassa incidenza».
E per altre patologie, come la Sla?
«Per quanto riguardo la sclerosi laterale amiotrofica (Sla) ci sono da tempo dati che indicano un maggiore pericolo di contrarre la malattia fra i giocatori professionisti italiani — risponde Adriano Chiò, direttore del Centro regionale esperto per la sclerosi laterale amiotrofica al Dipartimento di Neuroscienze «Rita Levi Montalcini» all’Ospedale Le Molinette della Città della Salute e della Scienza di Torino, nonché primo autore di studi fondamentali che hanno mostrato un’associazione epidemiologica tra calcio e Sla —. Il rischio è stato calcolato pari ad un aumento di circa sei volte e i dati italiani sono oggi confermati da analoghi dati di altri Paesi (Spagna, Francia). Tuttavia negli studi eseguiti l’uso o l’abuso di sostanze non sono mai stati identificati come specifiche cause, mentre è emerso il ruolo giocato da traumi, in particolare quelli cranici legati ai colpi di testa, uso di sostanze per il mantenimento dei campi di calcio e di allenamento (erbicidi) e, più in generale, l’attività fisica intensiva, oggi considerata un fattore di rischio rilevante per la Sla».
C’è un elenco di sostanze utilizzate in ambito sportivo che oggi sappiamo essere cancerogene?
«Assolutamente no — dice Massari, che gioca anche nella società San Donato Calcio 1948 di Bologna, nel campionato FIGC di seconda categoria —. Non esistono sostanze lecite utilizzate in ambito sportivo con potenziale attività cancerogena. L’agenzia mondiale anti-doping Wada (World anti-doping agency) identifica una serie di sostanze (anabolizzanti, steroidi) che vengono vietate “in competition” (nelle ore vicine alla gara) e “out competition” (indipendentemente dall’esecuzione di una gara), ma il divieto non è legato alla loro potenzialità cancerogena, bensì all’effetto sulla performance sportiva».
Come si a stabilire scientificamente che una sostanza è cancerogena?
«I cancerogeni sono solitamente identificati come fattori di rischio esterno e vengono classificati dallo Iarc (International agency for research on cancer, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, massima autorità in materia di studio degli agenti cancerogeni che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità) in diverse categorie in base al rischio cancerogeno per l’uomo — risponde Massari —. Per poter dimostrare scientificamente la cancerogenicità di una sostanza occorre innanzitutto valutare l’esposizione di cavie in laboratorio in concentrazioni molto alte: così si identificano i potenziali cancerogeni (suddivisi in certi, probabili e possibili) che, per inalazione, ingestione o contatto, possono provocare neoplasie. Oppure si raccolgono dati da studi su vasti campioni di popolazione. Così si è arrivati a includere nell’elenco degli elementi che sicuramente provocano il cancro, per esempio, alcune sostanze utilizzate in ambito lavorativo, così come benzene, amianto, inquinamento atmosferico, fumo attivo e passivo, radiazioni ultraviolette, virus dell’epatite B e C e Papillomavirus».
Allora come si possono spiegare i diversi casi di cancro in ex calciatori?
«Secondo le stime più recenti un italiano su tre si ammalerà di cancro nel corso della sua vita e le probabilità crescono con l’avanzare dell’età, specie dai 50 anni in poi (tanto che proprio da questa soglia si parte con i controlli di routine come la mammografia o il test Sof, per la ricerca del sangue occulto nelle feci) — ricorda Massimo Di Maio, segretario nazionale dell’Associazione italiana di Oncologia medica (Aiom) —. Anche se i casi di personaggi famosi fanno molto più scalpore, considerando peraltro che spesso sono persone “salutiste” e in forma, non c’è modo di dimostrare che i numeri dei tumori in calciatori ed ex sono più elevati rispetto al resto della popolazione. Mancano gli studi, non ci sono statistiche. Siamo nel campo delle pure ipotesi. Gli sportivi, insomma, possono sviluppare un tumore come tutti».
In conclusione, chi teme di sviluppare un tumore cosa può fare?
«Quello che dovrebbero fare tutti, cioè seguire le buone regole di prevenzione — conclude Di Maio —. È stato ormai ampiamente dimostrato da numerosi studi condotti in tutto il mondo che un caso su tre è evitabile con stili di vita sani: non fumare (o smettere con vantaggi concreti a ogni età), fare regolarmente attività fisica, seguire un’alimentazione equilibrata e non avere chili di troppo. E partecipare agli screening, quindi sottoporsi a quei controlli che in Italia vengono offerti gratuitamente a chi è più a rischio di sviluppare un tumore e che, invece, moltissimi connazionali rifiutano».
2 marzo 2023 (modifica il 2 marzo 2023 | 10:09)
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