Xi Jinping si sta fabbricando una «sindrome dell’accerchiamento» simile a quella che portò Vladimir Putin all’invasione dell’Ucraina? L’abbraccio tra Cina e Russia è più stretto che mai, come dimostrano due missioni diplomatiche parallele in corso in questi giorni.
L’ipotesi di una mediazione cinese nel conflitto ucraino viene resa sempre meno credibile da questi segnali di compattezza del blocco sino-russo.
Ma soprattutto merita attenzione la lettura che Pechino ha dato dell’ultimo G7, visto come un passo avanti nel tentativo americano di costruire una «Nato asiatica» e quindi mettere la Repubblica Popolare in stato d’assedio, circondata da un cordone sanitario di paesi a lei ostili.
In Occidente attese e speranze su un intervento cinese per porre fine al conflitto continuano ad essere regolarmente deluse. Sul «piano di pace cinese» si costruiscono castelli di congetture, che crollano di fronte all’evidenza: la Cina ha scelto da che parte stare, non è un arbitro né una forza neutra rispetto a questo conflitto.
Sono in corso due missioni diplomatiche incrociate il cui messaggio è il consolidamento dell’asse Pechino-Mosca. Il responsabile politico del partito comunista cinese per la sicurezza, Chen Wenqing, è in Russia per una visita di otto giorni in cui incontra il suo omologo Nikolai Patrushev, capo del consiglio di sicurezza di Putin. Simultaneamente il premier russo Mikhail Mishustin ha guidato nella Repubblica Popolare una delegazione di capi-azienda russi per stringere nuovi accordi di cooperazione economica.
Che nel lungo termine questo abbraccio sia soffocante per la Russia, è evidente: il Pil di Mosca è un decimo di quello cinese, inoltre la Repubblica Popolare ha un’economia più diversificata, e non ha tagliato i ponti con l’Occidente che anzi rimane il suo primo partner commerciale e finanziario.
Ma cinesi e russi condividono un’attenzione verso il Grande Sud globale che per i russi rappresenta un’alternativa obbligata, per i cinesi una sorta di polizza assicurativa, nel caso che l’Occidente diventi un partner economico più ostico. L’asse Pechino-Mosca non è una vera novità: due settimane prima che Putin scatenasse l’invasione dell’Ucraina, lui e Xi s’incontrarono all’inaugurazione dei Giochi Invernali di Pechino e si promisero «amicizia illimitata».
Quel che oggi risulta sempre più evidente, è che l’autocrate cinese si sta costruendo una teoria dell’accerchiamento sempre più simile a quella che Putin iniziò a sostenere nel 2007, all’epoca della sua svolta anti-occidentale, in un celebre discorso alla conferenza strategica di Monaco di Baviera. Fino ad allora Putin aveva confermato la cooperazione con l’Occidente ereditata dal predecessore Boris Eltsin e sancita dalla cooptazione della Russia nel G7 (divenuto G8) nonché da un promettente accordo di associazione e cooperazione con la Nato. Putin operò quello strappo in coincidenza con difficoltà interne, la crescita di movimenti di opposizione, il rischio di perdere il proprio potere. Cominciò a teorizzare che l’allargamento della Nato era una minaccia per la sicurezza russa. Nel 2008 invadeva la Georgia. Nel 2014 lanciò il primo attacco all’Ucraina con l’annessione della Crimea.
Xi Jinping ha dato ordine ai suoi diplomatici e ai suoi media di sostenere la narrazione di Putin sull’Ucraina: nella versione ufficiale cinese a provocare quel conflitto è stata l’aggressività dell’America. Ora diventa sempre più evidente che il teorema viene allargato all’Indo-Pacifico. In occasione dell’ultimo G7 la stampa governativa di Pechino ha sostenuto che gli Stati Uniti stanno cercando di «replicare in Asia la crisi ucraina».
L’incubo per Xi Jinping è che l’America esporti nel suo cortile di casa il modello Nato.
Tra i segnali che questo incubo possa realizzarsi: la decisione del Giappone di abbandonare 75 anni di pacifismo e avviare un riarmo; il disgelo tra lo stesso Giappone e la Corea del Sud; l’accordo Aukus con cui Usa Regno Unito e Australia collaborano nei sottomarini a propulsione nucleare; le nuove basi militari offerte dalle Filippine al Pentagono.
Tutto questo secondo il leader cinese è la prova che l’America vuole replicare la «trappola ucraina» già ordita ai danni di Putin.
Di quegli sviluppi strategici in Asia si può dare una lettura diametralmente opposta. È la Cina ad averli provocati, con i suoi comportamenti aggressivi ai danni di tutti i paesi vicini.
Le nostre cronache occidentali registrano quasi solo le azioni di accerchiamento militare di Taiwan, ma le incursioni e provocazioni si estendono a un arco geografico molto più ampio; così come le sanzioni economiche unilaterali con cui la Repubblica Popolare colpisce ogni atto sgradito (Giappone Filippine Australia e Corea del Sud ne sono state vittime, in quest’ordine, da anni).
Immaginare che l’opinione pubblica giapponese dopo tre quarti di secolo di cultura pacifista sia stata indotta a sostenere un aumento nelle spese per la difesa solo perché manipolata dalla propaganda guerrafondaia degli americani, è possibile solo se ci si mette nell’ottica di un regime autoritario come quello cinese, abituato al lavaggio del cervello dei propri cittadini.
Il problema è che Xi Jinping può essersi costruito attorno una «bolla» di collaboratori e teorici che confermano e rafforzano la sua visione del mondo, così come Putin sembra essersi imprigionato da solo in un ambiente sempre più autoreferenziale, dominato dagli ultra-nazionalisti.
L’idea che le azioni di Xi possano avere impaurito i paesi vicini, spingendoli a correre ai ripari, sembra non abbia diritto di cittadinanza nei palazzi del potere a Pechino, tantomeno nella diplomazia o nei media. L’idea che la distruzione delle libertà e dello Stato di diritto a Hong Kong, poi le minacce d’invasione di Taiwan, possano aver creato allarme a Tokyo, Seul, Manila, Canberra, sembra del tutto assente perfino dal dibattito accademico: forse perché comporterebbe una critica di gran parte dell’azione internazionale di Xi.
Allo stesso modo Pechino considera come un gesto ostile dell’ultimo G7 il tentativo di coinvolgere gli europei e la Nato, almeno dal punto di vista politico, sul dossier di Taiwan. Xi forse sperava di aver chiuso la questione una volta per tutte quando Emmanuel Macron in visita a Pechino aveva «cancellato» Taiwan dall’agenda europea. Se questo è il modo in cui vedono il mondo l’autocrate cinese e la cerchia dei suoi fidati, le conseguenze sull’asse sino-russo sono inevitabili. La Russia non deve perdere questa guerra perché se ciò accadesse, tutte le energie dell’America e dei suoi alleati si concentrerebbero in Estremo Oriente e cercherebbero di replicare la «trappola ucraina».
Questa Cina sembra avere una scarsa capacità di lettura delle dinamiche interne alle società democratiche. Prima del 2022 era difficile ravvisare dentro la società americana o quella europea o giapponese o sudcoreana le basi di consenso per un militarismo aggressivo; anche le classi dirigenti di questi paesi avevano tutt’altra agenda, tutt’altri obiettivi e tutt’altri problemi, prima che l’aggressione di Putin li scuotesse costringendoli a correre ai ripari. Il rovesciamento delle responsabilità che opera Xi non è di buon auspicio per il futuro.
24 maggio 2023, 17:18 – modifica il 24 maggio 2023 | 17:19
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