La regista italiana ultima in gara con «La chimera». Per il verdetto favoriti Kaurismaki, Loach, Wenders e Glazer. Per gli italiani ha più possibilità Marco Bellocchio
Scava e scava nella terra umida, con la vanga, a mani nude, al buio, in maniera furtiva, il capo ogni tanto voltato indietro per vedere se ci sono carabinieri in giro. E Alice Rohrwacher ha ritrovato il suo passato. Quante vite avranno accompagnato quel vaso di terracotta prima di finire sottoterra? Con Alice e la sua libertà di sguardo prendiamo la torcia e scendiamo dai tombaroli: «Quel mondo tra i boschi, notturno e segreto, con antichi artefatti che sembravano quasi uno stereotipo, ha riempito la mia infanzia nella campagna umbra. Mi stupiva e affascinava il fatto che non fossero atti illegali ma contro qualcosa che si considerava sacro. Sentivo raccontare dei maledetti tombaroli che di notte rubano nelle tombe, c’è un doppio coraggio nel rubare contro la legge dei vivi di giorno e nel rubare contro l’invisibile e la morte di notte. Prendono antichi oggetti dalle tombe etrusche per rivenderli, perché si sono staccati dal passato».
A poche ore dal verdetto, si avvicina una regista che al festival deve tutto, dal cognome duro e dai modi di una gentilezza d’altra epoca che riflettono la sua poetica onirica e realistica, immersa in mondi lontani, arcaici, perduti ma che riguardano il presente, il passato e la trascendenza, la morte e la rinascita. Arriva forte di due premi conquistati, Grand prix della giuria per «Le meraviglie» nel 2014, e migliore sceneggiatrice per «Lazzaro felice» nel 2018. Dunque eccola col suo sguardo spigoloso e irregolare, la pelle di latte, inquieta, dubbiosa, determinata, parla per lampi istintivi e definiti, eccola di nuovo in gara dopo cinque anni: «A Cannes c’è sempre un momento di sano panico e gioia, torno sempre con un misto di paura, felicità, terrore, vergogna, imbarazzo, orgoglio, è difficile da descrivere».
Il titolo, «La chimera», ovvero l’illusione (in senso figurato), speriamo che non si verifichi per lei nei premi di stasera. «La chimera rappresenta qualcosa a cui puntiamo e che non raggiungiamo mai. L’idea mi è venuta nella pandemia, quando abbiamo dovuto confrontarci con la morte». Un archeologo inglese (Josh O’Connor) è coinvolto nel traffico illecito di reperti archeologici, «ma lui si porta dietro un amore perduto», con le «robe» etrusche cerca una porta per l’aldilà, non lo fa per soldi, al contrario della gang da cui è attorniato. Isabella Rossellini, ex cantante d’opera in carrozzina, invecchiata, con i capelli tutti bianchi, è sua amica: «In questo film si sente la vita di Alice, di come sia cresciuta in campagna col papà apicoltore, la conoscenza della vita contadina che è stata dimenticata». «Ma io non mi sento nostalgica, non ho desiderio di tornare al passato, sono curiosa del futuro e felice di stare nel presente», dice la regista.
In questa epica rupestre ci sono attori presi dalla strada (o dalla campagna) e Alba Rohrwacher, stavolta bionda, in un cameo stima l’inestimabile per i curatori dei musei. Fu lei, classe ’81, di due anni più grande, a trascinare la sorella al cinema, dopo i primi passi a zigzag come montatrice, documentarista, fotografa, musicista, suonava la fisarmonica in un gruppo rock balcanico, e klezmer in Portogallo. Ha visto il suo primo film a 15 anni, fu «Teatro di guerra» di Martone a svelarle che «poteva esserci un modo diverso di raccontare le cose».
Ma tuffiamoci nel Totopalma. In pole position due film dove i protagonisti sono losers, direbbero gli americani: in «Fallen Leaves», Kaurismaki (che qui ha vinto solo un premio alla regia) racconta di un metalmeccanico allampanato e triste che non si stacca dalla bottiglia e sembra aver trovato l’anima gemella nella cassiera di un supermercato ma tutto gli è ostinatamente contro; in «Perfect days» Wim Wenders ha ritrovato poesia e vigore con un addetto alle pulizie delle toilette di Tokyo, un angelo caduto dalla vita metodica, povero, si fa la doccia ai bagni pubblici, senza nulla ma è felice col nulla che ha. Losers, nell’ottica capitalista, sono i rifugiati siriani discriminati nell’Inghilterra del dopo Brexit in «The Old Oak» di Ken Loach, l’inglese «rosso» dalla parte degli ultimi che con i Dardenne, Haneke, il presidente di giuria lo svedese Ruben Ostlund e pochissimi altri è nel ristretto club delle due Palme d’oro vinte.
Poi c’è «The Zone of Interest» di Jonathan Glazer, Auschwitz visto dalla inedita prospettiva dei nazisti. I francesi potrebbero portare a casa un premio con «Anatomy of Fall» di Justine Triet, thriller torrenziale (2 ore su 150 minuti in tribunale) su un caso del suicidio di un uomo o piuttosto del suo omicidio da parte della moglie, scrittrice tedesca. Qualche possibilità per «Qing Chun» di Wang Bing, sui giovani cinesi che lasciano zone rurali per lavorare come schiavi in una fabbrica tessile, o per «Club Zero» di Jessica Hausner, divisivo ma le manipolazioni sul cibo fanno presa. Kore’eda ha diviso con «Monster» ma con questo ragazzino bullizzato o bullo ha sempre il piglio autoriale.
E gli italiani? Se si allarga lo sguardo, i media internazionali apprezzano molto Marco Bellocchio e il grido laico di «Rapito», mentre Nanni Moretti con le sue clarks e i pantaloni vintage di velluto finisce dietro la lavagna, «Il sol dell’avvenire» parla «in maniera malinconica solo del suo mondo»: c’è stato il fuoco amico dei francesi con cui si erano tanto amati, Le Monde gli dà 2 in pagella (il massimo è 4), il Guardian 0, nella media generale con 1.3 è all’ultimo posto. In giuria c’è Julia Ducournau, Palma d’oro due anni fa con «Titane», il film con la donna messa incinta dalla Cadillac; Moretti reagì sui social con la faccia orrificata. Se teme «ritorsioni» ora? «Non è elegante parlare della giuria», ha commentato.
26 maggio 2023 (modifica il 26 maggio 2023 | 13:45)
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