Fu una delle storie più discusse degli Anni 60, con partiti di innocentisti e colpevolisti: da una parte la moglie della vittima; dall’altra il suo amante, che prima di uccidere il rivale aveva cercato di “comprarla”
«Caro signore, poiché avremmo intenzione di lanciare questo nuovo aperitivo, offrendole la rappresentanza nella sua zona, ci permettiamo di disturbarla con l’invio di un campione. Provi ad assaggiarlo. Un nostro incaricato verrà a trovarla per conoscere il suo parere. Vogliamo sapere se è di suo gusto e se l’ha trovato gradevole al palato».
Il nome sul pacco era quello di Tranquillo Allevi, detto Tino, un mansueto commerciante in latte e formaggi novarese. Da due anni, Tino viveva con la moglie Renata e i due figli ad Arma di Taggia, un posto lontano dalle risaie scelto per rifarsi una verginità dopo un fallimento e qualche litigio coi fratelli per un podere conteso.
Era il 1962, l’ingenuità è peccato senza epoca: convinto di essere conosciuto dalla San Pellegrino come imprenditore capace, Allevi pensò di aver pescato la carta vincente. «Tino era un buono, magari un po’ facilone», dicevano gli amici. Certo: la scatola non originale e imbottita di trucioli, la bottiglia chiusa manualmente, l’etichetta Bitter ritagliata e incollata avrebbero dovuto insospettire. Non lui. La sera seguente la consegna, il 25 agosto, Tino chiamò i soci Arnaldo e Isacco per farsi una bevuta gratis, con quel nuovo prodotto destinato a invadere bar e circoli di tutta Italia e – chissà – a fargli finalmente guadagnare un bel po’ di soldi.
Il mistero
Pochi minuti dopo, per i viottoli di Arma, tre uomini accalorati si contorcevano dal dolore. Li soccorse un vigile urbano, lì per lì convinto di avere a che fare con degli ubriaconi ma Allevi diceva che no, che gliela «avevano fatta». Era stato avvelenato. Gli altri si salvarono con una lavanda gastrica, lui morì dopo qualche ora: il referto autoptico rilevò una quantità di stricnina letale e i carabinieri partirono da quella bottiglia, malamente inscatolata, per tentare di capire chi avesse desiderato la morte di Tino. Il timbro indicava l’ufficio postale della stazione centrale di Milano, con data 23 agosto. Troppo poco. Ma l’atteggiamento di Renata Lualdi, la vedova, non passò inosservato. Troppo composta, come se si aspettasse che il marito potesse essere nei peggiori pensieri di qualcuno. Ammise di aver avvertito della scomparsa un estraneo, tale Renzo Ferrari. Veterinario e vicesindaco di Barengo, il paesino di Giampiero Boniperti, quattro case nelle campagne di Novara. Da anni, curava le mucche dell’azienda Allevi e, siccome la donna era «isolata, sola e trascurata» – parole del dottore – si era fatto carico anche delle sue lacune sentimentali. Di più: i due erano stati scoperti in atteggiamenti intimi sul greto del fiume Terdoppio proprio dal defunto marito e quel precipitoso trasferimento in riva al mare suonava come una fuga, nel tentativo di svincolare la signora Renata dalle attenzioni di Ferrari.
L’ASSASSINO, UN VETERINARIO, SEMINO’ TRACCE OVUNQUE. MA NON CONFESSO MAI E MORI’, DOPO LA GRAZIA, DA UOMO LIBERO
Delitto passionale
Era una pista sostanziosa per un omicidio definito «passionale». I carabinieri convocarono Ferrari a Sanremo e gli chiesero conferma della relazione, ammessa tra una fitta maglia di reticenze per minimizzare un rapporto clandestino che andava avanti da sei anni. Sì, Lualdi era una sua conquista ma una delle tante. Sì, la frequentava anche dopo l’allontanamento da Novara, si era trovato una consulenza dalle parti di Imperia. No, non era amore ma solo attrazione fisica. Il 23 agosto Ferrari era a Milano ma per un fugace impegno all’università. Venne arrestato. Servì più di un anno per impacchettare un atto di accusa per omicidio pluriaggravato, Ferrari gridava la sua innocenza dicendo che «solo un matto» avrebbe potuto architettare un delitto del genere. Forse, era sufficiente uno sciocco: l’imputato sparpagliò indizi ovunque. Il farmacista di Momo, il paese accanto a Barengo, testimoniò che Ferrari era passato a comprare sei fiale di stricnina. «Per curare un cavallo, anzi no, un maiale e una mucca» del tale allevatore, i cui animali vennero esaminati senza rinvenire tracce del farmaco. La carta usata per compilare il biglietto di invito ad assaggiare il Bitter era identica a quella in uso al Comune di Barengo; il messo ricordò di aver visto Ferrari chiuso in ufficio per ore a battere a macchina con la sua Olivetti Lexicon 80. Sequestrato, l’aggeggio venne identificato come la fonte della lettera. L’etichetta San Pellegrino sulla bottiglia proveniva da una rivista di settore per veterinari.
La vedova nel mirino
Ciononostante, la stampa si buttò sulla storia soffermandosi sullo smalto per unghie «grigio lunare e il rossetto adolescenziale color pesca» della vedova e, non si sa come, riuscì a creare due partiti di forza diseguale: alcuni colpevolisti e tanti, invece, che più ancora di credere all’innocenza di Ferrari lamentavano l’inaccettabile condotta morale di Renata Lualdi. Per loro, era quello il vero reato che aveva condotto Tino alla morte. I fotografi la seguivano ad Arma mentre faceva la spesa, le facevano la posta sotto casa. La gente la insultava per strada dandole della sgualdrina, quando non dell’assassina. Al paese di Ferrari, per contro, i cronisti comprovavano l’ampia solidarietà verso l’imputato, colpevole al più di aver aggiunto ai suoi trofei di caccia la donna sbagliata. Dopo lunghi silenzi e una costituzione di parte civile contro l’amante assassino, la donna al processo reagì: «Ho fatto le stesse cose di molte altre. L’unica differenza è che, di me, si sa tutto». Raccontò di essersi sposata per provare a sistemarsi e che Tino, la sera, non le faceva mai fare niente: «Alle nove di sera cascava sempre dal sonno». Ecco perché si era buttata nelle braccia di quel cascamorto, divenuto sempre più assillante con gli anni; ma mai poteva pensare che Ferrari potesse arrivare ad ammazzarle il marito. In aula, tra una sigaretta e uno sbadiglio, l’accusato arrivò a rispondere a un’inviata che si lamentava della stanchezza: «Sono un medico, se vuole ho un rimedio: una notte con me e vedrà, dormirà tranquilla».
La grazia di Cossiga
Prese trent’anni in primo grado e l’ergastolo in appello, da scontare prima a Pianosa poi in Emilia dove, da semilibero, lavorò in Parmalat. Nel 1981 chiese la grazia e, cinque anni dopo, il presidente Cossiga gliela riconobbe. Andò a morire di ictus nella casa di famiglia, due anni più tardi. Durante un’udienza, la sorella della vittima aveva spiegato di aver ricevuto una confidenza da Allevi, poco prima della morte. Che quel veterinario gli aveva proposto di lasciargli «in uso» la moglie a tempo indeterminato, così recita l’atto, in cambio di quattro milioni di lire: mezzo milione di euro, con la rivalutazione.
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15 marzo 2023 (modifica il 15 marzo 2023 | 09:15)
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