Parisa Nazari, attivista dei diritti umani, dall’Italia lotta per il suo Paese: «Oggi le ragazze si stanno trascinando dietro tutti, mariti, fratelli, padri, amici. Sono stati 5 mesi di repressione brutale, tra omicidi e torture. La gente però è matura e tornerà in piazza»
Parisa Nazari dice che quando era ragazzina le erano vietati l’amore, la gioia, la giovinezza, la libertà. Concetti apparentemente astratti, ma così concreti da determinare se avrai una vita felice. Ha festeggiato un compleanno ed è stata arrestata, ha scritto un tema contro la guerra ed è stata sospesa. Parisa era un’adolescente di Teheran che non poteva camminare per strada accanto a un coetaneo, né mettere una gonna corta o viaggiare da sola. Allora, appena ha potuto, ha lasciato l’Iran e dal 1996 vive in Italia. «Quelle giovani senza velo, così fiere, così potenti, che combattono per strada e su TikTok, mi rendono orgogliosa. So esattamente che cosa provano e che cosa vogliono. La mia generazione ha vissuto anche momenti peggiori di questi, ma non avevamo ancora gli strumenti per liberarci. Oggi, le ragazze iraniane stanno liberando tutti». Mediatrice interculturale, attivista dei diritti umani, il primo marzo si trovava al teatro Litta di Milano per la presentazione del progetto «Donna, vita, libertà» di Coop e Amnesty International: «Farò tutto quello in mio potere per aiutare gli iraniani a fare la rivoluzione, anche da qui».
Che cosa vuol dire essere un’adolescente in Iran?
«Divieti e buio. Ho vissuto solo tristezze e tragedie. Nel 1979, durante la rivoluzione che ha cacciato lo scià, avevo 5 anni. Poi, negli Anni 80, ero una ragazzina e sono cresciuta con la guerra contro l’Iraq. Dopo, non è mai andata meglio. Ricordo un’atmosfera cupa dove la retorica del martirio, della guerra santa erano alla base di ogni conversazione. Ridere era proibito».
Come adesso?
«Sì, i giovani iraniani rischiano la vita per necessità elementari. All’epoca era peggio perché il regime era ancora più oscurantista. Le nuove generazioni sono riuscite a conquistarsi sempre più spazi di libertà. È come se piano piano, anno dopo anno, proteste dopo proteste, ci si sia preparati a vincere contro la dittatura. C’entra internet, certo, ma credo che abbia contribuito anche quella piccola parentesi di apertura che c’è stata durante gli anni riformisti. Con questo non voglio dire che fossero anni sereni, anzi: c’erano continue condanne a morte e l’oppressione totale degli intellettuali. Ma si è sperimentato un po’ di più che cosa volesse dire essere liberi».
Un ricordo della sua infanzia?
«Ho molte immagini angosciose di quel periodo. Durante le scuole medie ho scritto un tema dove criticavo la guerra, erano pensieri di una bambina contro i dittatori. Credevo che gli insegnanti non capissero esattamente che cosa intendessi. Hanno chiamato i miei genitori dicendo che ero pericolosa e che forse sarebbe stato meglio se me ne fossi andata. Ma il ricordo peggiore che ho risale a quando io e la mia famiglia siamo stati arrestati a una festa di compleanno, erano i 18 anni di un amico. Ci hanno rinchiuso nell’edificio dove è stata portata Mahsa Amini. Non riesco nemmeno a pensarci, mi vengono i brividi. Abbiamo subito un processo, l’accusa era “reato di festeggiamento”».
A che punto siamo della rivoluzione?
«È complicato dirlo. Noi chiamiamo questa “rivoluzione” anche se sappiamo che non corrisponde ai canoni classici di quelle del passato. Ma lo è a tutti gli effetti: c’è un cambio di paradigma della cultura e della mentalità iraniana, c’è consapevolezza dei propri diritti e delle proprie capacità, della centralità della figura della donna che non è mai stata così determinante in Iran. Nella rivoluzione khomeinista avevamo a che fare con una società patriarcale, maschilista, tradizionalista, religiosa. In quarantaquattro anni – che non sono moltissimi nella storia di un Paese – è tutto cambiato radicalmente. Nonostante le leggi misogine e liberticide, le donne sono riuscite a emergere come vero motore sociale e si stanno trascinano dietro tutti: amici, mariti, fratelli, padri».
«I MIEI RICORDI? DIVIETI E BUIO, HO VISSUTO SOLO TRISTEZZA E TRAGEDIE. STAVANO PER CACCIARMI DA SCUOLA PER UN TEMA CONTRO LA GUERRA…»
In questo momento sembra però ci sia un rallentamento delle proteste.
«È naturale, è fisiologico. Sono stati cinque mesi di repressione brutale, feroce. Andando in piazza si rischiano il carcere, gli occhi, la tortura, lo stupro, la vita. Ma non è finita, anzi. Gli iraniani torneranno in piazza, stanno già tornando. Nel venerdì del quarantesimo giorno dalla morte dei due ragazzi impiccati dal regime, Mohammad Mehdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini, ci sono state moltissime manifestazioni. La rottura è definitiva: siamo a un punto di non ritorno».
Da qui sembra che il fronte dell’opposizione sia molto diviso, soprattutto fuori dall’Iran. È d’accordo?
«Dentro l’Iran è difficile fare analisi perché tutti quelli che fanno opposizione vengono annientati. È vero che all’estero ci sono delle divisioni, ma è anche vero che tutti chiedono unità in nome di una battaglia comune che è il rovesciamento del regime».
Sempre all’interno dell’opposizione fuori dall’Iran, stanno emergendo alcune figure come il figlio dello scià Pahlavi. Che cosa ne pensa?
«Io sono per la repubblica democratica. Penso che qualsiasi tentativo di unione e aiuto verso la transizione è gradito, ma non credo sia più il tempo delle figure carismatiche. Non c’è bisogno dell’uomo forte che guidi il Paese. Dentro, abbiamo una società civile così istruita e progressista che ha tutte le risorse necessarie per gestire e costruire il proprio futuro. Gli iraniani sono abbastanza maturi e consapevoli per riuscire a portare avanti il Paese tutti insieme, minoranze comprese, ovviamente».
Che cosa possiamo fare noi, da qui?
«Le società civili, i Paesi democratici devono sentire questa lotta come la loro. È una lotta per la difesa della libertà e della democrazia. Devono fare pressioni ai governi e ai politici affinché non diano alcuna forma di legittimità a un regime che uccide i giovani. Qualunque accordo politico o economico con Khamenei legittima, dà manforte alla dittatura. Ha perso credibilità per il suo popolo, la deve perdere anche per la comunità internazionale. Sono i dittatori che si alleano tra di loro, come succede con Vladimir Putin. Ma chi ha ideali di democrazia non può stringere la mano all’ayatollah».
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8 marzo 2023 (modifica il 8 marzo 2023 | 10:46)
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