La figlia di Gianni Boncompagni: «Non era autocelebrativo. Quando volevano intervistarlo diceva: che noia»
Gianni Boncompagni, che da sei anni non c’è più, ha inventato Bandiera Gialla e Alto Gradimento, Non è la Rai e Ambra Angiolini, Quelli della notte e i fagioli di Raffaella Carrà, ha scritto il Tuca Tuca e ha scritto Ragazzo triste. Ma di sé diceva: «Aspetto ancora di fare qualcosa per cui essere ricordato».
Barbara, la minore delle tre figlie, autrice tv, è l’unica che ha seguito le sue orme. Alla fine, suo padre per quale invenzione avrebbe voluto passare alla storia?
«Papà era zero autocelebrativo. Quando volevano intervistarlo diceva: che noia. Una volta, nei suoi ultimi mesi, era a letto con la flebo e gli portai un gioco: una lavagna di luce su cui scrivere frasi. Gli dissi: scrivi qualcosa di importante. Lui scrisse: ricordati di dimenticare. Quindi, per cosa avrebbe voluto essere ricordato? Forse, per le fidanzate».
A 80 anni, ne aveva una di trenta e discettava di «panchina lunga» e di altre giovani pronte a sostituirla.
«Su questo, era un po’ vanitoso. Ha avuto storie con Isabella Ferrari, Claudia Gerini e altre giovanissime. Ma dopo, quando queste ex dovevano prendere decisioni importanti, tipo comprare casa, chiamavano lui: diventava come un padre per loro. Era paterno anche con quelle con cui ha solo lavorato. Negli anni, tante mi hanno raccontato che lui raccomandava sempre di studiare. A noi figlie, invece, ha detto sempre il contrario: io volevo fare l’università a Parigi e lui: ma no, vieni con me, facciamo un programma».
In che altro è stato un padre anticonvenzionale?
«Quando si è separato, io e le mie sorelle siamo rimaste con lui. Avevamo da tre a sei anni. Papà era stato un giovane beat ed era un trentenne che iniziava una carriera importante, ma ci ha tirato su con concentrazione. Avrebbe potuto metterci in collegio o mandarci dai nonni, invece, fece di tutto per tenerci: si fece prestare i soldi da Mario Marenco per dimostrare al tribunale che poteva mantenerci. Dopo, è stato un padre ansioso. La sua frase era: attenta, se inciampi, cadi, sbatti la testa e muori».
La mamma, in tutto ciò?
«Svedese, figlia di una delle famiglie più ricche di Stoccolma, con una vita in stile Downton Abbey, e diventata sindacalista, femminista, una vera intellettuale. Si era innamorata di questo toscano che la faceva ridere, ma non si è ritrovata nella dimensione di famiglia italiana. Dopo il divorzio, è rimasta a Roma, l’abbiamo sempre frequentata».
E voi figlie che rapporto avevate con le fidanzate di papà?
«La prima è stata Raffaella Carrà, io avevo cinque anni, sono stati insieme forse una dozzina d’anni. Si erano conosciuti per un’intervista, all’alba, in una Piazza di Spagna deserta, magica. Lei 25 anni, lui già tre figlie. Si sono innamorati artisticamente. Lei ha preso casa accanto a noi. Noi bimbe stavamo con la governante, loro facevano avanti e indietro tra i due appartamenti. Immagino questa donna così ordinata, precisa, razionale, alla prese col nostro caos. Io e lei ci siamo trovate subito bene, ero la piccolina, mi chiamava “la mia bambina”, mi diceva: non mi dire così che mi fai piangere».
Perché? Lei che le diceva?
«Sei stupenda. Che bello che sei nella mia vita!».
Chi altro veniva a casa?
«Renzo Arbore spessissimo, coi fratelli Bracardi, Marenco, lo scenografo Gaetano Castelli, il coreografo Gino Landi. E poi Mita Medici, Patty Pravo…».
Per Patty, suo papà scrisse Ragazzo triste, un successo.
«Io mi ricordo di quando componeva melodie al piano per Raffaella. Quando scrisse Tanti auguri, usò una frase che aveva detto a me quando un fidanzato mi aveva lasciato: e se ti lascia, lo sai che si fa, trovi un altro più bello che problemi non ha».
Negli studi tv lo accompagnava?
«Erano come un’altra stanza della casa. Da piccola, sono stata alle prove di Mille luci e in tutti gli show di Raffaella. Poi, papà alla regia e io alla conduzione, facemmo Drim. Prima, mi fece perfezionare canto e ballo per mesi, tutti i giorni, a tempo pieno. Mi trovai tra Franco e Ciccio, Roberto Benigni… E sono stata tanto a Non è la Rai: doppiavo le canzoni. Nella vita, canto il jazz e tanti mi chiedono: sei pazza, perché non fai la cantante? Ma io ho vissuto fra persone che facevano solo cose straordinarie e ho chiaro cos’è l’eccellenza».
Suo padre, però, si vantava di fare tutto al minimo. Raccontava che, durante Pronto Raffaella, dormiva.
«Una volta, si svegliò, vide Daniele Piombi e chiese: come mai da queste parti? Non s’era accorto che era appena stato loro ospite. E Piombi: sei il solito spiritoso. Papà si alzava alle due del pomeriggio, ma Pronto Raffaella iniziava a mezzogiorno, per cui, lui arrivava un secondo prima. Si sedeva e dava il via. Tanto, il programma non aveva contenuti. Però, inquadrature, riprese, luci erano perfette. Lui amava dire che confezionava il vuoto pneumatico».
Giurava che il suo slogan era «presto e male».
«Era il suo modo per dire che chi fa tv non salva vite. Ma in realtà i poveracci che lavoravano con lui li faceva sgobbare giorno e notte. A Chiambretti c’è, Piero arrivava alle dieci, lui alle tre, con gli zoccoli, e diceva: vado al bar».
Condivide la lettura per cui è stato suo padre ad abbassare la soglia di accesso alla tv aprendo le porte ai reality e ai senza talento?
«Ha avuto la sua responsabilità. Quando doppiavo le ragazze di Non è la Rai, lui guardava Ambra o Viviana e diceva: ah… come fa il playback lei! E io: che talento è cantare in playback? Però, con Macao, tornò al talento: scoprì Sabrina Impacciatore, Lucia Ocone, Biagio Izzo, Ubaldo Pantani, Fabio Canino».
Alla fine, Ambra Angiolini ripeteva le parole di suo padre nell’auricolare?
«Chiaro: aveva 15 anni. Ma era intelligentissima, si è visto poi dalle svolte di carriera che ha avuto. Mi ricordo quando, vessata dalla stampa, piangeva in camerino. Papà continuava a ripetere: Ambra piange, Ambra piange. Come se fosse una Barbie o il suo giocattolino telecomandato… E io: Ambra piange, sì, perché è un essere umano».
Lei è rimasta in contatto con le sue ex?
«Con Isabella, eravamo coetanee. Per un anno, abbiamo convissuto tutti e tre a Roma: studiavamo insieme, andavamo a danza insieme. Siamo ancora come sorelle. Sento ancora anche Claudia Gerini. E Valentina, l’ultima, che gli è stata vicino fino alla fine. Non stavano più insieme, ma papà diceva: forse la lascio. E io: che ti lasci, papà?».
Come è stata la malattia?
«Papà è diventato tenero. Giocava coi nipoti, scherzava con noi sorelle. Siccome era un accumulatore seriale e aveva comprato una casa solo perché stava vicino all’Ikea, e solo per arredarla, io gli dicevo: quando vuoi, la camera ardente te la faccio all’Ikea».
Sapeva di essere alla fine?
«Non sai mai quanto il paziente sa o non sa. Gli abbiamo messo vicino delle infermiere giovani e carine. Abbiamo fatto proprio i casting. La volta che arrivò una sostituta anziana, col rosario in mano, lui disse: state scherzando, vero? E giuro che dovemmo mandarla via».
10 maggio 2023 (modifica il 10 maggio 2023 | 07:37)
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