Cleopatra era nera? Naturalmente no.
Ma quando la Hollywood politically correct la deve mettere in scena nel 2023, «naturalmente» il top management americano di Netflix decide di farne un’eroina della causa Black, dell’African pride (orgoglio africano), nonché del femminismo ante-litteram.
Il problema è che i prodotti americani viaggiano, hanno diffusione globale, e la cultura politicamente corretta promossa dalle élite Usa atterra su mercati poco inclini ad accogliere questo nuovo indottrinamento ideologico.
Per l’Egitto, quella Cleopatra Black è stata un’offesa nazionale, ha scatenato un incidente diplomatico e anche un rigetto di massa contro il dogmatismo dei poteri dominanti negli Stati Uniti. Più che sulla questione palestinese, più che sulla guerra in Ucraina, il Cairo ha preso le distanze dall’America su questo tentativo di manipolare la sua storia attraverso il colore della carnagione di Cleopatra.
La rissa tra due nazioni sull’antica sovrana è rivelatrice: tra le ragioni per cui il soft power americano è in crisi in Africa, c’è anche l’estremismo dell’establishment che comanda a Hollywood, nella Silicon Valley dove ha sede Netflix, nei social, nei giornali e tv di New York e Washington.
Cleopatra è un’icona con cui non si può scherzare. Fu l’ultima di una dinastia di faraoni che in realtà erano poco egiziani anche se erano riusciti a farsi accettare come tali. Apparteneva infatti alla stirpe regnante dei Tolomei, di origine ellenistica: li aveva insediati al potere Alessandro Magno. Erano dei faraoni «stranieri», venuti dalla Macedonia, quindi cugini dei greci, europei. Le gesta e la tragica fine di Cleopatra hanno incrociato capitoli importanti della storia di Roma (fu l’amante sia di Giulio Cesare da cui ebbe un figlio, sia di Marco Antonio), e hanno colpito la fantasia degli artisti. È rimasta una star per più di duemila anni, immortalata da capolavori di letteratura e pittura. Shakespeare ne fece il personaggio di una tragedia. Hollywood l’ha messa in scena più volte in passato, tra le star di varie generazioni che hanno impersonato la regina tolemaica figurano Liz Taylor e Angelina Jolie. Tutte scelte esteticamente discutibili, ma comunque un po’ più vicine alla realtà originale, rispetto all’ultima versione.
Solo l’America dell’anti-razzismo totalitario versione 2023 poteva imporre una Cleopatra nera, scegliendo l’attrice Adele James, e pensare di farla franca.
D’altronde negli Stati Uniti di oggi se un regista teatrale vuole mettere in scena un Amleto e attirare recensioni positive, assegna il ruolo del principe di Danimarca a un Black (verificare per credere). Il dogmatismo che impera a Hollywood non sospetta che le sue certezze possano avere qualche difficoltà a varcare la frontiera. E così Netflix ha affidato la produzione della sua serie docu-drama «Regine africane» a una celebrity Black: Jada Pinkett Smith, colei per cui il marito superstar Will Smith mollò un altrettanto famoso ceffone a una serata degli Oscar. Smith ha avuto la sublime idea di trasformare Cleopatra in una regina nera, reclutando per quella parte l’afro-britannica James, per «mandare un messaggio».
«Non ci accade spesso di vedere storie di regine africane, questo era importante per me, per mia figlia, per la mia comunità», ha detto la star hollywoodiana. Il fine giustifica i mezzi: per esaltare l’autostima delle donne Black statunitensi, val la pena falsificare la storia.
Sono giochi che rimangono impuniti finché rimangono nella cerchia delle celebrity multimilionarie in America, coccolate e vezzeggiate dal conformismo dei media. Nella realtà Cleopatra per via degli antenati macedoni aveva la carnagione chiara senza alcun dubbio, tanto più che la dinastia tolemaica praticava l’endogamia, preferiva i matrimoni tra cugini pur di non diluire la purezza del sangue reale.
L’unica ipotesi di un parente straniero – peraltro non condivisa da tutti gli studiosi – si riferisce a un possibile antenato persiano nel suo albero genealogico, comunque non un nero.
In Egitto il docu-drama Netflix con la Cleopatra Black ha provocato indignazione ad ogni livello. Un’authority governativa, il Consiglio Superiore per l’Antichità, responsabile per la tutela del patrimonio storico, ha definito quel filmato «una falsificazione della nostra storia». Un popolare anchorman televisivo del Cairo ha accusato l’America di voler «stravolgere la cultura egiziana». Sono state avviate azioni legali per bloccare l’accesso a Netflix sul territorio nazionale.
Il governo del generale al-Sisi è intervenuto via Twitter per ricordare che sono rimaste delle statue di Cleopatra e tutte confermano com’era fatta: «aveva tratti ellenistici, cioè europei, labbra sottili, pelle chiara».
La protesta dal basso è stata ancora più travolgente: la corrispondente del New York Times al Cairo, Vivian Yee, ha constatato che Netflix in Egitto ha dovuto oscurare i commenti sul suo sito, intasato dalle contestazioni.
I giustizieri di Netflix, decisi a promuovere la causa Black dal loro quartier generale in California, non si aspettavano cotanta reazione. Erano convinti di aver portato avanti un’opera virtuosa, eticamente ineccepibile, che consiste nel demolire l’egemonia bianca sul modo in cui viene raccontata la storia dell’umanità. La loro ignoranza della storia vera, e anche della geografia, li ha resi impreparati di fronte al furore egiziano.
L’episodio è emblematico non solo per ciò che rivela dei rapporti odierni Usa-Africa: sui tanti problemi creati dal politicamente corretto nella politica estera di Washington ricordo altrove la crociata Lgbtq indigesta a molti africani. Ma l’affaire Cleopatra è interessante anche per altre ragioni: per ciò che insegna sui rapporti tra l’Africa settentrionale e quella subsahariana, nonché sulle varie forme di razzismo che esistono tra africani.
L’Egitto fin dalle origini della sua antichissima civiltà è sempre stato un Paese-cerniera, un crocevia tra continenti. I faraoni – quelli autoctoni, tremila anni prima di Cleopatra – avevano intensi rapporti economici e culturali con i loro vicini meridionali, territori che oggi appartengono al Sudan, all’Etiopia, all’Eritrea. L’Africa nera costituiva un retroterra importante del loro impero. Avevano però anche una proiezione mediterranea e all’apice della loro potenza proiettarono la loro influenza verso la Grecia e l’Asia minore. L’Egitto di oggi è etnicamente irriconoscibile rispetto a quello dei faraoni, avendo subito diverse ondate di invasioni: arabe, ottomane, europee. Un’analisi basata sul Dna dei vari gruppi etnici nell’Egitto contemporaneo può rivelare le stratificazioni di queste ascendenze: dai nubiani ai greci, dai romani agli arabi, dai turchi agli albanesi. Dal punto di vista geopolitico e culturale, l’impronta araba ha lasciato due eredità determinanti: il ruolo importante del Cairo come una delle capitali religiose dell’Islam moderno (in particolare grazie alla sua università); la relazione stretta tra i governi egiziani e i loro vicini del Medio Oriente. In particolare dalla rivoluzione del colonnello Nasser (1954) in poi, l’Egitto ha proiettato le sue ambizioni su tutta l’Africa, al tempo stesso ha voluto essere un interlocutore imprescindibile sulla questione israelo-palestinese e sugli equilibri di potere dell’area mediorientale che arriva fino al Golfo Persico.
L’Egitto è geograficamente un paese africano; politicamente e culturalmente questo continente gli sta stretto. È uno Stato membro dell’Unione africana, però vuole essere ascoltato su questioni che riguardano l’intero Mediterraneo. In questo ha delle affinità con altri paesi nordafricani come Algeria e Marocco, anch’essi proiettati dall’ambizione verso il Nord anche se gli eventi talvolta li risucchiano verso il Sud.
L’Egitto è una società multietnica ma questo non significa che ignori le tensioni razziali. Gli egiziani di pelle chiara si considerano superiori a quelli di pelle scura, in ossequio a una tradizione del mondo arabo. Ai vertici del regime ci sono state personalità di varia gradazione etnica: Nasser aveva tratti e carnagione di un mediorientale, come i suoi successori militari Mubarak e al-Sisi; solo Sadat fu un leader più affine alla componente nera della popolazione. In generale quegli egiziani che si considerano «bianchi» sono sovrarappresentati nelle classi dirigenti e dominano gli affari del paese. Era prevedibile quindi lo scontro con l’Afrocentrismo, l’ultima moda culturale delle élite nordamericane. Per gli afrocentristi che dettano legge nell’intellighenzia Usa l’antico Egitto era la culla di una civiltà Black, da cui ebbe origine un vasto patrimonio artistico e culturale dell’Africa nera, poi svilito dai colonizzatori bianchi. Tipico di questo modo di riscrivere la storia è quanto ha dichiarato al New York Times una docente Black dello Hamilton College, nonché nota militante femminista, Shelley Haley. «Cleopatra reagì all’oppressione e allo sfruttamento proprio come farebbe una donna Black – ha dichiarato la Haley – perciò dobbiamo abbracciarla come una sorella».
In questo senso Cleopatra viene adottata dalle femministe nere, e il colore (inventato) della sua pelle diventa una scelta politica, da imporre con i canoni del 2023 su una realtà storica di due millenni prima.
Per la medesima indifferenza al contesto egiziano ha pagato un prezzo l’attore afroamericano Kevin Hart: ha dovuto cancellare una tournée in Egitto, per aver dichiarato che i faraoni erano neri.
Su questa vicenda aleggia un grande tabù, un tema che nessuno degli interessati vuole affrontare in modo esplicito. Se gli egiziani di oggi sono in parte arabi, e segnati in modo indelebile da quella conquista araba che li convertì all’Islam, come tali sono gli eredi di un impero che praticò lo schiavismo su scala massiccia, estraendo enormi profitti economici dal traffico di carne umana. Gli arabi furono mercanti di schiavi molto prima che lo schiavismo approdasse alla sua dimensione «industriale» nelle piantagioni coloniali europee nelle Antille, in Brasile, negli Stati Confederati del Sud degli Stati Uniti. È un tabù per le classi dirigenti islamiche di oggi, che non danno nessun segno di voler rivisitare in modo autocritico la propria storia come stanno facendo gli occidentali. È un tabù anche per l’élite anti-razzista degli Stati Uniti, che preferisce stigmatizzare i bianchi come l’unico gruppo colpevole di orrori, e auspica una vasta coalizione di tutte le minoranze etniche oppresse.
La tensione tra il mondo arabo e quello Black-afrocentrico esiste sottotraccia anche negli Stati Uniti. Eccola affiorare in questo aneddoto che racconta lo scrittore Richard Hanania, originario di Chicago: «La mia Chicago è abitata per un terzo da Black. Come molte città del Midwest, è estremamente violenta, e i crimini sono concentrati in modo preponderante nei quartieri afroamericani. Quando dilagano in altre zone della città, a commetterli sono soprattutto individui che provengono da quei quartieri. Ho molti amici di famiglia che sono immigrati dal Medio Oriente e possiedono negozi in città. Prima o poi qualche loro parente o conoscente è stato rapinato, talvolta ucciso. Il campione di basket (nero) Michael Jordan era ammirato e rispettato da tutti. Ma le conseguenze delle sue vittorie sportive riempivano la comunità di paura, perché ogni sua vittoria in campionato si trasformava in un’opportunità per appiccare il fuoco ai negozi degli immigrati. Quando succedeva uno di questi fatti, gli arabi si esprimevano tra loro per allusioni. “Cos’è successo al negozio di Walid?” “Lo sai, i neri…” “Ah”. No, per la verità loro dicono “gli schiavi”, perché questa è l’espressione usata dagli arabi».