Cosa farebbe Gambardella oggi, dieci anni dopo? Snobberebbe lo scudetto del Napoli, ospiterebbe una famiglia di ucraini, continuerebbe a nascondere i sentimenti sotto il cinismo. Come il suo regista, che ha un debole per le debolezze umane
Intervistare Paolo Sorrentino a dieci anni dalla grande bellezza produce vari effetti. Primo, sorpresa. Dieci anni? Di già? Sì, dieci anni. Il tempo passa. Per tutti, tranne che per Jep Gambardella. Lui è lo stesso del 2013, quando uscì il film con Toni Servillo nei panni, di sartoria, del flaneur 65enne, ex prodigio letterario, apatico giornalista mondano. Così, intervistando il regista napoletano ci si sente la copia taroccata di Jep, ci si sente deludenti. Ma la delusione, – secondo effetto collaterale -, la paura di deludere ed essere delusi, anche da sé stessi, è uno dei temi del film. Terzo: il cortocircuito tra il film e la location dell’intervista, un attico in zona Esquilino, nel cui studio ci sono due enormi lucernari che proiettano sul vetro l’azzurro eclatante del cielo di Roma, con i gabbiani sospesi dal vento sulla piazza. Alcuni, mentre le campane fanno vibrare l’aria con i loro rintocchi, arrivano così vicini che la finestra li incornicia in uno zoom apparente che esalta i riflessi bizantini del tramonto. Eccola, l’illusione che la grande bellezza sia questa cosa qui, tutta estetica. Ma è così?
Toni Servillo ci guarda con garbata misericordia dal muro opposto ai lucernari, pieno di poster di film e foto di scena, come quella dell’attore finito in copertina della sceneggiatura de La grande bellezza scritta con Umberto Contarello e ora pubblicata da Feltrinelli. Dietro e di fronte alla scrivania, con un computer ad ampio schermo, le due pareti sono ricoperte di libri, cimeli da regista e feticci personali, come il busto di Maradona, sotto una teca. Ci sono due cavalletti con tele su cui dipinge, ma a colpire sono le penne sulla scrivania: a decine, in mazzi uguali.
«Ho una passione per le cartolerie, vado spesso nelle cartolerie e per non essere deludente compro sempre qualche penna», spiega mostrando con gioia una stilografica usa-e-getta, la sua ultima scoperta (non diciamo la marca, altrimenti gli arrivano a pacchi e poi non ha più la scusa per entrare in una cartoleria). Si siede, mi invita a far altrettanto: «Le persone in piedi mi mettono a disagio». Poi, chiesto il permesso, si accende un sigaro.
Quando è stata l’ultima volta che ha visto il film?
«Qualche mese fa. Volevo vedere un bel film…» C’è una scena che ricorda in particolare? «Le prime due scene, c’è tutto il film: il sacro della scena di giorno, al Gianicolo, e poi la festa in terrazza di notte, il profano, la stupidità, lo squallore, la bellezza, persone che flirtano, parlano delle loro ambizioni…»
Un’altra scena che l’ha colpita?
«Quando Servillo è sulla terrazza e c’è un’amica che gli sta rompendo le scatole con un discorso pesante, allora lui le offre una pizza di scarola e dice “Aè, l’ha fatta la donna delle pulizie, è più buona di quella di mamma”. Usa il dialetto velocemente, per liquidarla. Ridevo quando giravo quella scena, quando la montavo e rido ogni volta che la vedo. Alla fine dei giochi la grande bellezza vorrebbe solo essere un film molto divertente».
Toni Servillo deve essere divertente sul set.
«Con Toni ormai riconosciamo subito i tipi umani che ci fanno ridere. Persone che si danno arie o persone serie in situazioni di disagio. Come Carlo Verdone, che quando gira i suoi film alle 10 di sera è a letto; ricordo che una volta facemmo una pausa alle undici e lui ha creduto che fosse finita e io ho detto “guarda Carlo abbiamo appena cominciato”. Era come se gli avessi detto è morto il cane! Il film è pieno di scene notturne. Ci faceva ridere la sua frustrazione di non poter andare a dormire presto, perché per noi invece era un’avventura stare fuori a Roma di notte in pieno agosto. Ti sentivi proprietario della città. Ricordo che era molto bello tornare all’alba con mia figlia, che aveva 15 anni».
Il film è molto divertente, grottesco, a tratti erotico, ma ci sono anche momenti di dolore. Come quando Jep consola il vedovo che aveva sposato la ragazza del faro, il primo amore di Jep. “Piangono con la dignità degli adolescenti delusi”, è descritto nella sceneggiatura. Rivedendo il film mi è sembrato venato da questa empatica malinconia.
«Invecchiamo tutti. Pure lei».
Il vedovo legge nel diario segreto della moglie di essere stato poco più di un buon compagno di vita, mentre lei amava Jep, e Jep prova a consolare l’uomo dicendo che quando si scrive si inventa, si confonde memoria e fantasia. Lei ci crede?
«Giorgio Manganelli nella raccolta La penombra mentale dice che quando si scrivono cose di fantasia e letteratura si attinge a zone anonime dell’io, anche sconosciute. Ogni tanto mi capita di rileggere cose vecchissime, scritte a penna, e dico “chi le ha scritte? Mica io? Ho provato questo? No, è un altro”. E invece ero io, ma è un altro io che si mette al lavoro quando scrivi. Le cose restano indecifrabili. Questa cosa scritta è vera? Falsa? Non so. Manganelli dice che scrivere è un atto anarcoide, non anarchico, l’anarchia presuppone ideologia».
Oltre a scrivere, cosa fa di anarcoide? Dipinge?
«No, è come lo yoga, mi rilassa. Ecco, semmai fumo».
Quando ha iniziato?
«A vent’anni, mi lasciò la ragazza. Poi è diventata una scusa per stare da soli, utile per me, che ho una capacità di stare in società limitata, come i bambini al ristorante, dopo un po’ si alzano e vanno a giocare».
A proposito di scrittura come menzogna. Nei racconti Gli aspetti irrilevanti inventa storie guardando foto di persone sconosciute.
«Mi piace. Io e mia moglie, che prima di stare assieme uscivamo come amici, ci siamo innamorati così. Eravamo sul lungo mare di Napoli, e guardavamo passare le persone e ci divertivamo a immaginare le loro biografie. È stato il primo grande passo per passare dalla amicizia ad altro. Nel libro ho fatto la stessa cosa».
Nella Milano di Jannacci c’era “l’ufficio facce”, dove si immaginava la vita di qualcuno dalla sua faccia.
«Napoli in questo è eccezionale, permangono facce di secoli fa».
Altra scena drammatica. Al funerale del figlio problematico di un’amica, Jep arriva dopo averci istruito su come comportarsi in questi casi: mai piangere se non si è parenti stretti, si ruberebbe la scena, dice. Poi però Jep scoppia in lacrime.
«La vita è così, quello che programmi non va mai come deve andare. Lui programma un comportamento, ce lo spiega pure, ma poi viene tradito dai sentimenti. In fondo è un film su un uomo sentimentale che si camuffa, si nasconde dietro il disincanto e il cinismo. Sono le stesse cose che avevo in testa quando l’ho fatto, il film non è cambiato».
E Roma è cambiata?
«Dieci anni fa ero fresco, avevo l’incanto del turista, ero affascinato dai riti, dalle cene, gli incontri con persone strampalate che ho messo nel film. Per chi viene dal Sud, da Napoli, Roma è a Nord ma non è Nord, è Italia centrale. È una città piene di persone che vengono da fuori, che stanno sempre a parlare, vogliono affermarsi, fare scalate. Questo mi divertiva molto, mi piace ascoltare per lavoro e indole. Ora la curiosità ha preso altre forme e mi colpisce sempre più la grande differenza con Napoli, che è una porta sul Meridione».
Roma è ancora sospesa tra bellezza e squallore?
«Credo che lo squallore contenga una sua bellezza e la bellezza abbia qualcosa di squallido, è la mia modestissima idea. Sì, c’è il canone, il David, ma a me piace la grande fragilità dell’essere umano, che si manifesta negli interstizi dei comportamenti, l’insicurezza delle persone che parlano con perentorietà: Jep è uno scrittore affermato e dandy che sembra sapere tutto della vita e invece non sa nulla; e pure le carnevalesche figure di contorno, tutte assediate dalle loro goffaggini e imprevedibili debolezze. Per me questo è bello, è la grande bellezza. Poi il film è stato letto in tanti modi, come un j’accuse o una rappresentazione ironica, per me non è così».
Lei è cambiato in questi 10 anni?
«Come tutti, invecchio. Il bello è che cominci a fregartene delle conseguenze. Senza arrivare a quelli che perdono tutti i freni inibitori e dicono qualsiasi cosa. Ma è la deriva di un processo in cui inizi a dire ciò che pensi e te ne freghi delle conseguenze, perché crescendo impari a conoscerle, mentre da giovane non le conoscevi e ti facevano paura; invecchiando il copione della vita inizia a diventare scontato e prevedibile nelle conseguenze e allora dici “vabbè, chissenefrega”».
A 65 anni sarà uguale a Gambardella?
«Se togliamo l’apparato mondano, gagà e vanitoso, le giacche colorate, è un personaggio in cui mi rispecchio molto. Anche io sono abbastanza cinico e disincantato. Sono la versione sbiadita di quel personaggio là. Mi è piaciuto molto nel film canzonare quelli che si credono superiori agli altri, che si sparano delle pose, in terrazza o nelle interviste dove danno molta importanza a cose che sono totalmente irrilevanti. Comunque Gambardella sta benissimo, quando passo vicino alla casa della sua terrazza, davanti al Colosseo, lo immagino sempre con un gin tonic, che fa passare il tempo e aspetta la visita di Dadina».
Verso la fine, Gambardella va all’Isola del Giglio e osserva, da una altura, la Costa Concordia incagliata: mi ha ricordato proprio il Colosseo visto dal terrazzo, ipnotico nelle sue rovine butterate. In maniera diversa, sono due spettacoli di morte. Oggi quale evento incuriosirebbe questo frivolo cronista?
«Mi dica lei, che fa il giornalista, un evento degli ultimi dieci anni che ha fatto storia…»
Beh, c’è una squadra italiana che da anni non vinceva uno scudetto e quest’anno…
«No, io non parlo di due cose. Il nuovo film cui sto lavorando. E lo scudetto del Napoli».
Perché? Anche lei come i giocatori del Napoli ha dato i diritti della sua immagine a De Laurentiis?
«No, ma il mio stato d’animo è di felicità e quando uno è felice non dovrebbe parlare, da felici non si dicono cose intelligenti, si è solo felici, c’è uno stato di incanto e l’incantesimo non prevede l’intelligenza. Se parlassi, direi banalità. E se avessi girato La grande bellezza oggi non avrei mandato Gambardella allo stadio. A me non interessa la cronaca, l’attualità, a meno che non sia storicizzata da un corpus di analisi o abbia una dimensione immediatamente altra. Era evidente dal primo momento che da fatto di cronaca la Concordia, questa enorme balena di ferro spiaggiata a metà in un mare incantevole, stava diventando qualcos’altro. Forse oggi direi la guerra in Ucraina. All’inizio, mi è capitato di ospitare una famiglia ucraina qui in casa. Ecco, forse se avessi fatto La grande bellezza in quel periodo avrei messo Jep, uno che torna alle 5 del mattino con i gin tonic, che ospita una famiglia ucraina in casa».
E il covid? Un altro evento epocale.
«È stato un grande detonatore di emozioni perché ha portato a vivere la vita in maniera diversa».
“Finisce sempre così, con la morte”, dice Jep. Il Covid ce l’ha ricordato brutalmente.
«La morte è l’unica cosa che conta, la vita conta in quanto c’è la morte, altrimenti non ha alcun senso. Certo, Jep avrebbe vissuto il Covid sul terrazzo, da solo».
A proposito di solitudine e covid, ricorda le immagini del Papa in una San Pietro deserta?
«Quella immagine del Papa era bella e potente, niente da fare, simbolicamente potentissima: un uomo solo di fronte al mondo».
Però lui ha Dio, cioè, è meno solo di chi non crede. Secondo lei il Papa crede in Dio?
«Non lo so… cosa mi fa dire? Sì, sicuramente ci crede. Sennò come fai a diventare Papa se non credi in Dio? Il problema semmai è capire se Dio crede nel Papa. Ma questo cosa che c’entra con La grande bellezza?»
Gambardella cerca sempre di parlare al cardinale di temi seri, sul demonio, sull’al di là. E il cardinale è evasivo. Il film poi è pieno di suore, preti…
«Roma è piena, solo i romani non li vedono perché ci sono nati e sono abituati, ma per chi viene da fuori è incredibile».
Che rapporto ha con la solitudine?
«Amo quella controllabile, è stimolante perché mi fa scrivere e lavorare, ma poi ho una moglie, figli, amici, è una solitudine parziale. C’è una solitudine più profonda dalla quale non si torna indietro. L’ho intravista. Nelle persone attorno. E in me. Ho già fatto un film sulle mie vicende personali, non parlerò più di me, dei miei genitori, ma ricordo che una volta, agli inizi della mia carriera, ebbi un colloquio di lavoro per una pubblicità a Milano: sono arrivato 6 ore prima, in periferia, e ho aspettato facendo nulla. Non avere nulla da fare, se lo moltiplichi, mette paura».
Un conto è fare un film sul nulla, la vanità della vita mondana, un conto è vivere il nulla.
«Il film è un racconto di eventi controllato su vite incontrollabili, ma è controllato, per questo è divertente, bello il cinema: controllo armonico della disarmonia».
Rivedendo il film mi ha sorpreso la Santa. Più interessante, meno faticosa di quel che ricordavo.
«È quella che piace meno a tutti, invece è fondamentale, perché il film è la storia di un uomo disincantato, che non riesce a meravigliarsi più, in una città bellissima ma piena di gente gioiosamente avvilita. Lei, che viene da lontano ed è in odore di santità, lo riporta alle origini, cioè l’unica cosa che conta. Ed è fondamentale anche perché Jep è prossimo ad essere anziano e la vita, se hai la fortuna di invecchiare, diventa estenuante, e per essere estenuante un film deve allungarsi quando sembra sul punto di finire. Così, quando il film poteva finire, ho fatto arrivare la Santa, ed è diventato straziante, il film, come la vita di Jep. È un miracolo che La grande bellezza abbia avuto successo, perché era un film lungo e stancante, voleva esserlo e lo è stato».
A proposito di parabole estenuanti. L’ha seguita l’incoronazione di Carlo III?
«Lui è un personaggio interessante, è in giro da parecchio ed è arrivato tardi a fare il Re. C’è una cosa molto divertente che vidi tempo fa, a proposito di cose di attualità che sembrano scadenti e poi sono interessanti: lui e Camilla erano in Africa o in Nuova Zelanda e ci fu un balletto degli indigeni, e tutti e due hanno avuto un attacco di risate, soprattutto lei; non si riuscivamo a trattenere, ed è stato meraviglioso. Non è squallore, no, è altro: un momento in cui il dovere istituzionale, che è il loro abito, non è riuscito a tenerli, e allora hanno scavallato, sono diventati studenti di scuola media che ridono in classe per una cosa strana che fa il professore: beh, quella asimmetria rispetto alle aspettative che abbiamo per un essere umano è una cosa meravigliosa. Mi dicessero “fai un film su Carlo” inizierei da là».
GLI INIZI – Paolo Sorrentino (Napoli, 31 maggio 1970) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico Assistente alla regia ne I ladri di futuro di Enzo Decaro nel 1991, esordisce con il cortometraggio Un paradiso, co-diretto con Stefano Russo. Per il regista Antonio Capuano collabora alla scrittura di Polvere di Napoli (1998).
I TROFEI – Ha vinto un Golden Globe, quattro European Film Awards, un Premio BAFTA, otto David di Donatello, otto Nastri d’argento. Nel 2008 Il divo, ispirato alla figura di Giulio Andreotti e interpretato da Toni Servillo, vince il Premio della giuria. Nel 2013 La grande bellezza vince l’Oscar.
I LIBRI – Nel 2010 ha pubblicato il romanzo Hanno tutti ragione, arrivando terzo al Premio Strega 2010. Ha poi pubblicato due raccolte di racconti: Gli aspetti irrilevanti, e Tony Pagoda e i suoi amici
21 maggio 2023 (modifica il 21 maggio 2023 | 08:20)
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