Intervista all’artista. Dalla maschera («mi fa sentire libera») a Italo Calvino: «Spiega che dall’alto si vede tutto in maniera più chiara, per questo per me lo spazio è importante a livello simbolico». La sua idea di arte «come responsabilità». Attiva a Roma dal 2019, non rivela né viso né voce. Ora un film la racconta
«Se non lotti, hai già perso». Nel corso della telefonata, Laika lo ripete più volte, con la voce gracchiante che le conferisce il software che usa per mascherare la sua identità. Di lei non si conoscono né il volto, né il nome, né l’età. La potremmo chiamare street artist, ma preferisce «attacchina». «Ho sperimentato anche altri mezzi», spiega, «ma colla e carta è da dove provengo: l’attacchinaggio è parte della performance e della mia arte».
Laika è attiva a Roma (e non solo) dal 2019. Le sue opere, spesso irriverenti, sono profondamente politiche. Con i suoi poster ha denunciato l’«epidemia di razzismo» verso le persone asiatiche scoppiata all’inizio della pandemia, ha vestito l’allora sindaca Virginia Raggi da celerina per protestare contro lo sgombero di Cinema Palazzo, ha preso posizione contro l’hate speech mettendo nero su bianco, su un muro della Capitale, nomi e cognomi di chi dissemina odio in Rete. Il suo abbraccio tra Giulio Regeni e Patrick Zaki, realizzato nel febbraio del 2020, è diventato uno dei simboli della lotta per la libertà dello studente egiziano.
Laika, ormai, si è fatta notare. Però non piace a tutti. Anzi. Ha ricevuto minacce più volte. I suoi poster ispirati all’invasione dell’Ucraina, ad esempio, hanno fatto scalpore («Sono stata la prima a fare un’opera contro la guerra e sui social sono stata vittima di una vera e propria shit storm», dice). E lo stesso hanno fatto quelle in cui accusa l’Ue di non fare abbastanza contro le violazioni dei diritti umani subìte dai migranti. O, per meglio dire, da alcuni migranti: «Alcune persone vengono accolte a braccia aperte, altre vengono lasciate a morire in mare o in mezzo alla neve», spiega l’attacchina.
Tra 2021 e 2022, Laika è stata in Polonia, nei centri che accolgono gli ucraini in fuga dalla guerra, e in Bosnia, a conoscere i migranti che percorrono la rotta balcanica. Dai due viaggi – raccontati per esteso, insieme alla storia dell’artista, nel film Life is (not) a game di Antonio Valerio Spera — ha tratto diverse opere, ma anche un’amara conclusione: «Ci sono migranti di serie A e di serie B. Non capisco: perché non possiamo essere accoglienti sempre nei confronti di coloro che ne hanno bisogno?».
Laika, iniziamo dal principio, ovvero dal tuo nome d’arte. Perché «Laika MCMLIV»?
«Laika è il nome del primo essere vivente mandato nello spazio, una cagnetta, e 1954 è il suo anno di nascita. A livello simbolico, per me lo spazio è molto importante: evoca l’ambizione. E poi, come dice Italo Calvino ne Le città invisibili, dall’alto si vede tutto in maniera più chiara».
Non ti mostri mai in volto e alteri la voce per proteggere la tua identità. Perché?
«Mi fa sentire libera. Mi permette di essere diversa senza dovermi limitare, magari per paura».
Hai detto che «non è importante sapere chi c’è dietro la maschera».
«Il punto principale deve essere il messaggio. Pensare alla vita privata di chi c’è dietro la maschera sarebbe solo una distrazione. Laika è quello che vedete, è quello che fa».
C’è chi ti chiama «la Banksy italiana»: ti fa piacere?
«Mi fa sorridere, perché io sono semplicemente me stessa. Banksy è Banksy, non c’è molto da aggiungere. È avanti anni luce. Io punto allo spazio, ma lui è oltre lo spazio. Sono una sua fan, naturalmente, ma non basta l’anonimato per essere la o il Banksy».
I tuoi poster possono essere rimossi o strappati da un momento all’altro: è già successo. Come la vivi?
«Le mie opere hanno una loro vita, spesso breve: quando attacco un poster lo lascio alle legge della strada. C’è chi lo apprezza, ma anche chi lo strappa o lo rimuove. Per rabbia, per dissenso o perché cerca di impedire che venga visto, anche se è inutile: una volta che è sul muro e viene fotografato, ormai è tardi… A volte un poster si deteriora per condizioni climatiche ed è affascinante passarci davanti per andare a vedere come sta, se è cambiato, se è invecchiato…».
Vivi della tua arte?
«Da questo punto di vista, Laika ha cambiato la mia vita. Il progetto ha dei costi, ma oggi è pienamente sostenibile ed io riesco a fare solo questo. Certo, non so se sarà così per sempre. E c’è bisogno di tanto lavoro per fare cose sempre più ambiziose. Io scelgo temi che mi appartengono, di pancia e poi di testa o il contrario, a seconda dei casi. Ma tutto emerge dalla mia coscienza politica. Ho sempre pensato che interessarsi alla cosa pubblica e ai diritti umani, civili e sociali fosse fondamentale».
Nel film, a un certo punto, dici: «La politica non si fa più, non si cerca più di capire». Quando abbiamo smesso di farlo?
«È stato un processo graduale. Oggi ci si disinteressa dell’essere umano a vantaggio degli interessi economici. Il dissenso è stato lentamente anestetizzato. Siccome è successo in modo graduale, e non dichiarato, le persone si sono abituate a non protestare, ma anche a disinteressarsi. Vale per tutti: chi più, chi meno, io neanche per sogno (ride, ndr)…»
A chi ti rivolgi con le tue opere?
«Uso messaggi semplici perché voglio che i miei poster arrivino anche a chi pensa solo ai filtri Instagram e alla tv di intrattenimento. Parlare solo con chi ha le mie stesse idee sarebbe più facile, ma non creerebbe un vero dibattito: mi farebbe restare nel settarismo».
Le tue opere sulla guerra in Ucraina non sono piaciute a tutti.
«Ho rappresentato due carri armati, uno russo e uno ucraino, l’uno di fronte all’altro, con i cannoni intrecciati a formare un simbolo della pace. Non voleva essere una presa di posizione da una parte o dall’altra. Io credo alla diplomazia e penso che la corsa agli armamenti sia il modo peggiore per lavorare alla pace. Qualcuno però non ha interpretato bene l’opera o non ha voluto accogliere il mio pensiero e sono stata minacciata in modo terribile. Lo stesso è avvenuto anche per il mio secondo lavoro sul tema: due donne, una russa e una ucraina, abbracciate e in lacrime. Sono stati giorni pesanti. Solo la maschera mi ha protetto, ma mi chiedo cosa sarebbe potuto succedere se non la indossassi. Chissà se avrei avuto la forza di andare avanti».
Sei stata in Bosnia all’inizio del 2021 per incontrare i migranti che percorrono la rotta balcanica. Nell’aprile del 2022, poi, sei stata in Polonia, lungo il confine attraversato dalle persone in fuga dal conflitto ucraino. Differenze?
«Alla frontiera tra Polonia e Ucraina ho visto una macchina dell’accoglienza perfetta. C’erano stand che offrivano pasti caldi, tè, bibite fresche, informazioni pratiche… così dovrebbe essere l’accoglienza. Ovunque. Invece lungo la rotta balcanica si consumano delle becere violazioni dei diritti umani. Ho visto persone in condizioni disperate. Molte di loro scappano per colpa nostra, per i danni che abbiamo fatto, per le guerre che abbiamo scatenato a tavolino, per le conseguenze di colonialismo e postcolonialismo… L’Ue si sta comportando male».
Cosa può fare l’arte per i migranti? C’è chi direbbe che è inutile…
«Tanti dicono “protestare è inutile», «arrabbiarsi è inutile», «votare è inutile»… Potenzialmente tutto è inutile, no? Ma per me il fatto di trasmettere un messaggio di lotta non è per niente inutile».
L’arte come lotta, dunque?
«L’arte come responsabilità. Come artista sento di avere un ruolo sociale. Sono anche ironica, a volte, e lì è un altro discorso. Però se con un poster riesco a suscitare qualcosa anche in una sola persona, ne vale la pena».
«Stavolta andrà tutto bene», dice Giulio Regeni a Patrick Zaki in uno dei tuoi più celebri lavori. Ora Patrick è libero.
«Non è più in carcere, ma non può uscire dal suo Paese. Un passo avanti, certo, perché le condizioni nelle carceri egiziane sono tremende. Ma non è finita. Purtroppo contro di lui c’è un processo politico. Sapere che i miei poster hanno fatto il loro lavoro, cioè far parlare di lui, per me è bello… mostra che qualcosa si può smuovere».
La frase «andrà tutto bene» è poi diventata un mantra negli anni pandemici. Tu sei ottimista rispetto al futuro?
«Per me il futuro è una grande preoccupazione. Non so se andrà tutto bene, non riesco a darti un lieto fine per questa intervista: mi sembrerebbe di peccare di ingenuità. Però spero, ecco: spero che qualcosa cambi. Ma non ci si può affidare al caso, bisogna lavorare per far sì che vada tutto bene. E una cosa è certa: se diciamo che è tutto inutile, abbiamo già perso».
15 marzo 2023 (modifica il 15 marzo 2023 | 09:29)
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