La Presidente della Fondazione Nicola Trussardi: «È un progetto che non ha una sede fissa, non ha una collezione, ma, letteralmente, porta l’arte per strada»
La Fondazione Nicola Trussardi, da lei guidata, compie vent’anni. Che cosa direbbe suo padre, al quale è intitolata?
«Che l’arte è necessaria. Lui per primo ne era convinto. Voleva che le sue sfilate assomigliassero a delle performance artistiche, è stato uno dei primi. Coinvolgeva registi come Giorgio Strehler, ballerine come Carla Fracci».
E lei, la primogenita di Nicola e Maria Luisa Gavazzeni, sorella di Tomaso e Gaia, ha scelto non la moda ma l’arte contemporanea. Non le pare che in Italia sia ancora un territorio di nicchia?
«Ma è questa la sfida. In questi vent’anni io e Massimiliano Gioni (il direttore artistico, ndr) abbiamo creato un progetto che non ha una sede fissa, non ha una collezione, ma, letteralmente, porta l’arte per strada, tra la gente, riapre e rivitalizza luoghi poco o per nulla conosciuti. L’artista viene, lavora, espone e poi è libero di fare quello che vuole con l’opera, noi non imponiamo nulla. Dunque, l’opera se ne va. Quello che resta è la memoria di qualcosa: di una chiesa che nemmeno sapevi che ci fosse, di una piscina gigantesca e abbandonata che sta a pochi metri da casa tua».
Qualche volta però le opere non vengono capite e, siccome «invadono gentilmente» la città, capita che vengano anche contestate.
«Be’ tutti ricorderanno il caso dei pupazzi di Maurizio Cattelan, appesi a un albero in piazza XXIV Maggio a Milano, l’installazione denominata Untitled. I pupazzi avevano le fattezze di bambini, cosa che fece gridare allo scandalo in tutto il mondo. Quella di Maurizio, in realtà, era una denuncia contro la violenza, ma venne letta al contrario. Dopo meno di quarantotto ore dall’inaugurazione un cittadino distrusse la scultura, che sarebbe invece dovuta rimanere esposta per mesi».
Milano ricorda anche «Short Cut», installazione di Michael Elmgreen & Ingar Dragset, nella Galleria Vittorio Emanuele nel 2003.
«Certo. Un bel giorno, nell’Ottagono i due artisti fecero apparire un’auto e una roulotte che parevano incagliate nella sabbia. Era una metafora di una città in perenne movimento, ma i vigili urbani non lo sapevano, così cominciarono a rimuovere quelli che per loro erano solo… due veicoli in divieto di sosta! Eravamo all’inizio, non c’era stata una comunicazione efficace tra uffici pubblici e forse nemmeno la giusta chiarezza da parte nostra».
Nata e cresciuta a Bergamo. Com’è stata la sua giovinezza?
«Scuola dalle suore, rigore forse estremo, ogni tanto volava pure qualche schiaffo. Ma io ero brava: una volta una suora disse a papà che sarei diventata una perfetta religiosa, avrebbe dovuto pensarci».
E Trussardi che rispose?
«Disse: “Non se ne parla”».
Voi figli avevate consapevolezza del progetto che stava realizzando vostro padre?
«No, per nulla. Perché lui ci ha sempre protetto dalla curiosità e dalle speculazioni. Lui lavorava a Milano e noi siamo rimasti a Bergamo, per dire. Andavamo a scuola a piedi da casa, nonostante io sia del 1971 e dunque tra gli anni Settanta e Ottanta il terrorismo e i rapimenti fossero una terribile realtà, anche in provincia. Ma papà voleva per noi una perfetta normalità».
Però lui, poco per volta, diventava un personaggio internazionale.
«Sa, per noi ricevere a casa Carla Fracci o Dario Argento non era incontrare delle celebrità, ma ospitare persone intelligenti e simpatiche. E mamma e papà non ci sono mai parsi dei personaggi, ma dei veri genitori. Solo a sedici anni io entrai a far parte di una campagna pubblicitaria, ma era tutto un gioco, non c’era l’idea di entrare nel jet-set. Però quando entrai nell’adolescenza si consumò una piccola ribellione, perché io volevo vestire come i coetanei, cioè da “paninara”, con le Timberland e i piumini. Papà disse di no e oggi capisco perché: non voleva che io mi omologassi. Oggi lo ringrazio ma all’epoca quando le amiche mi chiedevano come mai io non portavo l’ultima felpa di moda, non sapevo che cosa rispondere».
Com’è arrivata l’arte nella sua vita?
«Perché per mio padre coincideva con una certa idea di moda. Per lui non era, o almeno non solo, business. Fu il primo a “trussardizzare” tutto, dal motorino alle borse ai divani ma non per un intento pubblicitario, bensì per la convinzione che il suo progetto non si limitava a abiti o accessori. Includeva tutto, ed è per questo che le sue sfilate divennero memorabili. Ricordo bene la volta in cui capii di essere figlia di “quel Nicola Trussardi”: una tv locale gli fece una intervista e allora lui, come eccezione, volle che la sua famiglia guardasse la trasmissione. Rammento che in quel momento capii di essere figlia di un grande uomo della moda».
Laurea in Art Business & Administration all’Università di New York e collaborazioni con il Guggenheim, il Metropolitan e il MoMA. Tanta America e poi il ritorno in Italia. Come mai?
«Prima venne la laurea in Architettura e pensi che in America lavorai per un breve periodo con Peter Marino, ma non era l’eccentrico che è oggi, era un signore più sobrio. Ma negli Stati Uniti capii che si può fare arte in modo dinamico e non paludato, innovativo e non conservatore. Capii che il contemporaneo ha tante possibilità espressive».
È stato in America che ha conosciuto Cattelan?
«Sì, al MoMA, dove lui teneva una performance vestito da Picasso. La direttrice ci chiamò entrambi nel suo studio per farci conoscere, ma timido lui, timida io sedemmo l’uno accanto all’altra senza dirci una parola».
Un po’ come quando a Davos lei sedette vicino a Ai Weiwei, il più famoso dissidente cinese.
«Non era ancora così famoso, parlammo del più e del meno ma non di arte. Io con gli artisti voglio discutere di tante cose, è questo il bello». Le piacciono i lavori di Zaha Hadid? «Ho lavorato al Maxxi e dico che no, quel lavoro non mi piace. Benissimo la sinuosità, ma l’architettura è stile e funzionalità».
E se le dico Norman Foster?
«Abbasso gli occhi e guardo la mia tazza di té».
Per non rispondere?
«No comment».
E se, cambiando argomento, le dico Mario Draghi?
«Con lui eravamo tutti contenti».
Qual è la cosa più difficile per una «capitana» dell’arte come lei?
«Realizzare i progetti. Che a volte sono imprevedibili. Prenda l’ultimo: in Gilded Darkness l’artista Nari Ward ha lavorato nella gigantesca piscina del Centro Balneare Romano, in zona Città Studi, a Milano. A un certo punto ci siamo resi conto che serviva l’intervento di una squadra di sommozzatori. Lei capisce che in un progetto d’arte l’intervento dei sommozzatori è qualcosa di imprevisto. Ecco, gestire, anche finanziariamente, questi imprevisti penso che sia abbastanza difficile anche se stimolante, certo».
In un altro vostro progetto l’artista Ibrahim Mahama arrivò a impacchettare i Caselli Daziari di Porta Venezia.
«Uh, anche lì si scatenò il finimondo. Il punto è che la gente passa davanti a quei palazzi e li sente propri. Se un mattino se li ritrova impacchettati, protesta. Ma questo è un buon segno: vuol dire che il patrimonio architettonico di una città è vissuto come qualcosa di familiare».
Due figli, un matrimonio. Come ha conosciuto suo marito?
«Per caso, in vacanza con amici. Vede, in me non troverà mai lo scalpore, sono rimasta una ragazza normale, quello che voleva papà».
10 marzo 2023 (modifica il 10 marzo 2023 | 07:13)
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