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Mentre il Giappone presiede il vertice del G7 a Hiroshima, la Cina ospita o prepara dei contro-vertici internazionali con tutti coloro che al G7 non sono rappresentati.
Questi summit alternativi prefigurano il mondo che (forse) verrà: il mondo sino-centrico che Xi Jinping vuole sostituire all’ordine globale americano-centrico.
Il primo di questi vertici ha di poco preceduto il G7, è quello che ha riunito insieme alla Cina i leader di cinque Stati dell’Asia centrale: un’area del mondo che un tempo apparteneva all’Unione sovietica. Il secondo vertice, ancora più importante, è quello dei Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) in calendario ad agosto: lo presiede il Sudafrica e potrebbe parteciparvi Vladimir Putin in persona.
Perché il G7 non è più rappresentativo
La geometria variabile di questi vertici riflette i cambiamenti nei rapporti di forze internazionali. Il G7 è una creatura della guerra fredda e del primo shock petrolifero (l’embargo Opec del 1973). Nacque come il club dei paesi più ricchi del mondo: negli anni Settanta erano tutti occidentali, con l’eccezione del Giappone. I membri di quel club sono rimasti gli stessi, anche se nel frattempo la classifica dei Pil non è più rappresentata dentro il G7: la Cina è numero due mondiale, l’India e la Corea del Sud potrebbero sostituire a loro volta Italia e Canada. Insomma se dovesse riflettere le gerarchie del Pil oggi il G7 sarebbe molto più asiatico, solo America e Germania salverebbero di sicuro il loro seggio lì dentro, mentre tra Francia e Regno Unito si andrebbe allo spareggio.
Alla nascita il G7 riuniva quasi i due terzi del Pil mondiale. Il suo peso economico aumentò ancora fino a raggiungere un massimo del 70% del Pil globale alla fine degli anni Ottanta. Da allora è cominciato il declino, oggi è a quota 45%. Misurato a parità di potere d’acquisto il Pil dei Brics – grazie alla Cina – oggi avrebbe superato quello del G7. Un aspetto interessante è la tenuta dell’America. Il Pil americano era un quarto di quello mondiale nel 1990 e trent’anni dopo lo è ancora, malgrado l’ascesa della Cina. Il Pil Usa era il 40% di quello del G7 nel 1990, oggi è salito al 58%. Dunque il declino relativo del G7 rispetto al resto del mondo va imputato più alla deludente performance economica dell’Europa.
Sta di fatto che il G7 ha smesso da tempo di essere rappresentativo dell’economia globale. Già nel 2008, di fronte allo shock della crisi finanziaria, per concordare una risposta internazionale Barack Obama volle spostare il baricentro delle consultazioni fra governi in favore del G20, che svolse un ruolo positivo per tamponare le crisi bancarie di allora. Il problema è che nel G20 oltre alla Cina e ad altre grandi nazioni emergenti c’è anche la Russia. Questo lo rende inutilizzabile come forum decisionale nel dopo-Ucraina. Di qui il rilancio del G7 nella sua vocazione più politica e strategica. Questo formato torna ad essere utile in quanto «alleanza delle liberaldemocrazie». Ma per la stessa ragione cresce l’interesse verso altre architetture internazionali, dove trovi spazio il resto del mondo: in particolare quel Grande Sud globale che sulla guerra in Ucraina ha evitato di prendere posizione, cerca di non schierarsi con l’uno o l’altro dei blocchi, rifiuta di applicare sanzioni, anche se in certi casi (India Brasile e Sudafrica per parlare dei Brics) è governato da sistemi democratici.
Grande Sud globale, un’arena per Xi Jinping
Il Grande Sud globale com’è noto è un concetto geopolitico, non geografico. Ne fanno parte anche tanti paesi emergenti che si trovano a Nord dell’equatore. A differenza del Terzo mondo «non allineato» della prima guerra fredda, che era segnato dal sottosviluppo, questo Grande Sud geopolitico è pieno di paesi emergenti … già abbastanza emersi (India, Indonesia, Messico) e alcuni perfino ricchissimi, come l’Arabia saudita. È un terreno sul quale la diplomazia cinese si sta mostrando iperattiva. Il disgelo diplomatico Arabia-Iran fu un successo di Xi Jinping che rafforzò le sue credenziali in quel mondo.
Il summit dell’Asia centrale che si è appena tenuto su iniziativa cinese è un altro momento importante. Vi hanno partecipato i leader di Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. Il luogo scelto dal padrone di casa cinese per questa puntata del summit è simbolico: Xian, nota nel mondo come la capitale dell’ «esercito di terracotta», fu anche il terminal originario delle antiche Vie della Seta, quelle alle quali si è ispirato il gigantesco progetto di investimenti infrastrutturali chiamato Belt and Road Initiative. Dalla capitale imperiale di Xian si è irradiata l’influenza cinese verso l’Asia per millenni. Quel luogo racchiude un messaggio caro a Xi Jinping: la Repubblica Popolare si sta riprendendo quel ruolo che fu suo per gran parte della storia umana, come la civiltà più avanzata e la più ricca del pianeta, il centro del mondo.
Il summit dell’Asia centrale è una sfida per altre superpotenze. L’America ha lasciato un vuoto in quella parte del mondo quando si è ritirata (malamente) dall’Afghanistan, e certo non è lieta di constatare che quel vuoto viene riempito dalla sua più temibile rivale. Però la sfida più dirompente è alla Russia. Quelle cinque repubbliche dell’Asia centrale un tempo erano parte dell’Unione sovietica. Anche dopo la dissoluzione dell’Urss, hanno continuato a gravitare su Mosca. Oggi la Russia è troppo indebolita dalla guerra per poter esercitare la sua egemonia sull’Asia centrale, che si rivolge verso un protettore ben più forte.
A sottolineare lo scippo fatto alla Russia c’è un progetto d’investimento da 4 miliardi di euro per una nuova rete ferroviaria che collegherebbe Cina, Kyrgyzstan e Uzbekistan all’Europa, senza passare dalla Russia. Ecco come Xi Jinping sta iniziando a riscuotere i crediti accumulati verso Vladimir Putin con l’appoggio economico durante la guerra: gli sfila le ex-colonie. Putin voleva tornare ad allargare la sua sfera d’influenza a Ovest, e invece la perde a Est. Assorbito dalla disastrosa avventura ucraina, cede pezzi del suo impero che scivolano a gran velocità verso la Cina.
Per entrare nei Brics c’è la coda
Come anti-G7, come vertice alternativo che rappresenti il Grande Sud globale, il migliore contenitore è la sigla Brics.
Strana storia: l’acronimo lo inventò un economista di Goldman Sachs all’inizio del millennio, per indicare agli investitori americani una nuova categoria di paesi in cui investire: gli emergenti. All’epoca sembrava un consiglio audace, piazzare capitali in destinazioni così esotiche. All’inizio furono Bric, la S del Sudafrica si aggiunse in seguito. Piaceva l’assonanza con il nome «bricks» che in inglese significa mattoni. È piaciuto talmente che per qualcuno sono diventati i mattoni di un nuovo edificio geopolitico, l’architettura di un ordine internazionale diverso da quello americano-centrico.
I Brics si affezionarono all’idea di Goldman Sachs, cominciarono a riunirsi tra loro (è una storia che ho raccontato nei dettagli nel mio libro «Il lungo inverno»).
Il summit è diventato una vera istituzione, con tanto di segreteria e presidenza di turno, come il nostro G7. Un punto debole è la sua disomogeneità politica. Non basta essere ideologicamente anti-occidentali, o comunque allergici agli schieramenti Est-Ovest, per andare d’accordo. Il caso più lampante è la coesistenza dentro i Brics di Cina e India, due potenze che hanno pochi interessi in comune, molta rivalità, e perfino un contenzioso territoriale che ogni tanto spinge i loro due eserciti a scontrarsi alla frontiera. L’India nei Brics appare quasi un’infiltrata filo-americana; però conserva ottimi rapporti con la Russia, non la sanziona, anzi le compra petrolio e gas a gogò.
Il club dei Brics fa proseliti: c’è una lunga lista di nazioni che vorrebbero essere ammesse: dall’Arabia saudita all’Indonesia, dall’Argentina alla Nigeria. Se i Brics dicessero di sì a tutti diventerebbero rapidamente un altro G20. L’allargamento sarà uno dei temi discussi nel summit di agosto, sotto presidenza del Sudafrica. Un vertice circondato da attese enormi, e alta tensione. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa è riuscito ad acutizzare tutti i sospetti dell’America e dell’Occidente nei suoi confronti, con una serie di atti a favore della Russia oltre che della Cina. Anzitutto, a febbraio si sono tenute delle manovre militari congiunte tra forze armate sudafricane, russe e cinesi: praticamente in coincidenza col primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina. Poi Washington ha rivelato che il Sudafrica ha venduto armi alla Russia, cosa che il governo di Pretoria non è stato in grado di smentire.
Arrestare Putin?
Infine c’è la possibilità che al vertice dei Brics ad agosto Vladimir Putin voglia presentarsi di persona.
In teoria il Sudafrica dovrebbe arrestarlo e consegnarlo alla Corte penale internazionale dell’Aia, in esecuzione del mandato di cattura, perché Pretoria è firmataria dell’atto costitutivo di quel tribunale e ne riconosce la giurisdizione. Ramaphosa è arrivato al punto di annunciare l’uscita del suo paese dalla Corte, poi si è rimangiato tutto creando una gran confusione. È ragionevole prevedere che escogiterà un modo per non arrestare Putin, come già fece per l’ex dittatore sudanese Omar al-Bashir quando partecipò in Sudafrica a un altro summit mentre era incriminato dall’Aia.
Forse anche per far dimenticare le sue gaffe, Ramaphosa ha annunciato che guiderà una missione di pace con altri leader africani, un improbabile tentativo di mediazione tra Russia e Ucraina. Insieme con il Sudafrica sono coinvolti Congo, Egitto, Senegal, Zambia, più un paese non africano, l’Arabia saudita. Se si toglie Riad, che grazie al petrolio e alla leadership dell’Opec può avere un’influenza su Mosca, gli altri non sono in grado di esercitare pressioni efficaci.
L’iniziativa sembra dettata dai disagi economici che la guerra continua a provocare, in particolare attraverso l’inflazione dei prezzi alimentari. È lecito lo scetticismo su questa mediazione. Però anche questa iniziativa si aggiunge a uno scenario in cui il resto del mondo vuole marcare la sua autonomia dall’Occidente; mentre non ha la stessa ansia di prendere le distanze da Mosca e Pechino. La capacità dell’Occidente di reagire e riprendere l’inziativa è limitata, fra l’altro, dall’avvicinarsi dell’elezione presidenziale in America. Joe Biden ha dovuto accorciare il suo viaggio, limitandolo al solo G7 in Giappone. Ha tagliato dall’itinerario un giro nelle isole del Pacifico che sono importanti per ragioni militari, e vengono corteggiate dalla Cina. Biden ha anticipato il ritorno a Washington dove è in corso un difficile negoziato sul tetto del debito federale Usa con la maggioranza repubblicana alla Camera. Anche se l’ipotesi di un default sovrano degli Stati Uniti rimane improbabile, il solo fatto che se ne parli è un segno dei danni che la polarizzazione infligge all’America e alla sua immagine nel mondo.